Acqua al piombo, razzismo, e quella linea del bus soppressa: le tante facce dell'ingiustizia ambientale

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Servizio comunicazione istituzionale

4 Aprile 2022

Tra gli aspetti su cui possiamo riflettere rispetto alla pandemia di COVID-19 che ha segnato gli ultimi due anni di tutti noi, c’è sicuramente il tema della disparità, sociale e ambientale, che abbiamo visto chiaramente, anche nella ricerca e nell’utilizzo di possibili soluzioni. In che modo il coronavirus ha evidenziato la presenza di ingiustizie strutturali? Ne abbiamo parlato con Marta Fadda, ricercatrice post-dottorato e docente del corso di Etica Biomedica del Master in Medicina della Facoltà di scienze biomediche dell'USI.

 

Dottoressa Fadda, innanzitutto, che cosa significa giustizia ambientale?

La giustizia ambientale è un principio che, a partire dal riconoscimento dell’ambiente come elemento di equità e giustizia sociale, stabilisce che ognuno di noi ha diritto a un trattamento equo e a un coinvolgimento significativo per ciò che concerne lo sviluppo, l’attuazione e l’applicazione di leggi, regolamenti e politiche ambientali indipendentemente da etnia, colore della pelle, origine, o reddito. In altre parole, ognuno di noi ha il diritto di vivere in un ambiente sicuro e sano, indipendentemente dalle caratteristiche o dal gruppo in cui ci identifichiamo. Parliamo quindi di ingiustizia ambientale quando persone o comunità vulnerabili (per esempio, a causa della povertà) vengono esposte in maniera sproporzionata rispetto ad altre persone o comunità a rischi o danni ambientali che derivano da operazioni o politiche industriali, governative o commerciali. Ma parliamo di ingiustizia ambientale anche quando leggi, regolamenti, politiche e programmi ambientali vengono implementati senza il coinvolgimento delle comunità che possono essere toccate (negativamente) da queste misure.

 

In questi ultimi due anni è stato molto evidente che ci fosse qualcosa che non andava a livello di parità e disparità. Ma come ce ne si accorge?

È molto semplice: basta guardare quali sono le caratteristiche sociodemografiche delle comunità più colpite dall’inquinamento. Pensiamo al caso della città di Flint, in Michigan, dove per diciotto mesi la popolazione è stata esposta a livelli tossici di piombo attraverso l’acqua dei propri rubinetti: una delle città più povere degli Stati Uniti, dove la maggioranza degli abitanti sono persone di colore. Quante volte si sente parlare di fabbriche ad alto potenziale inquinante per l’aria che respiriamo che sono state volutamente costruite nei quartieri più poveri delle città? Gli studi scientifici sono unanimi nell’affermare che chi risiede nei quartieri coi livelli più alti di inquinamento sono le persone più povere, con i livelli di istruzione più bassi, e i livelli di disoccupazione più alti tra la popolazione. E queste disparità sono emerse in maniera molto nitida con la pandemia da COVID-19. Le persone che hanno maggiori probabilità di ammalarsi gravemente di COVID-19 sono quelle che hanno sofferto più a lungo l’impatto dell’inquinamento e dell’ingiustizia ambientale. Una vera e propria catena di ingiustizie, insomma.

 

Al giorno d'oggi secondo Lei è ancora possibile vivere certe situazioni?

Purtroppo all’origine di tante forme di ingiustizia ambientale vi sono delle forme di ingiustizia strutturali fortemente cucite al nostro tessuto politico, economico e sociale. Queste forme di ingiustizia si verificano quando gli interessi di un gruppo di individui (solitamente persone povere o appartenenti a minoranze etniche, culturali, linguistiche, o religiose) vengono ignorati da parte di una maggioranza politicamente, economicamente e socialmente più forte. Viviamo ancora certe situazioni perché non tuti cominciamo il nostro percorso dalla stessa linea di partenza, e questo percorso non si presenta a tutti allo stesso modo ma per alcuni è ricco di ostacoli. Spesso questo svantaggio non viene corretto con le tempistiche e misure adeguate, e le barriere non vengono eliminate. Prendiamo l’esempio di Jessica, nata in un quartiere fortemente inquinato da genitori poveri e affetti da diverse malattie che faticano a curare per via dei costi elevati e della mancanza di strutture appropriate nelle vicinanze. Jessica lascia la casa dei genitori per trasferirsi in un’altra abitazione poco costosa dove deve fare i conti con la presenza di batteri dovuti all’umidità e sostanze tossiche sulle pareti, di cui la proprietaria non intende minimante curarsi visto che nessuna legge glielo impone. Jessica non ha avuto la possibilità di studiare, e l’unico lavoro che trova è come cassiera in un piccolo supermercato dove la legge consente di fumare e in cui riceve un salario esiguo e la possibilità di accedere gratuitamente a tutti gli “snack” confezionati che desidera, che la donna trasforma nei suoi pasti principali. Quando Jessica scopre di essere incinta, è già stata esposta a inquinamento, fumo passivo, batteri, cibi ad elevato contenuto di sale e zuccheri, e abusi verbali e fisici da parte dei clienti del supermercato; Jessica rischia di perdere il lavoro e diventare ancora più povera e vulnerabile, perché la sua gravidanza è a rischio e il medico le ha consigliato il riposo assoluto, ma il sistema non la protegge economicamente in questo caso; il suo bambino rischia di nascere con delle patologie e di non raggiungere mai il suo potenziale a causa delle opportunità ristrette e le numerose barriere che ha incontrato sua madre. Il caso di Jessica mostra come le condizioni politiche, economiche e sociali in cui nasciamo e cresciamo hanno un fortissimo peso sulla nostra vita e giocano un ruolo importante nell’attuare varie forme di ingiustizia, spesso nonostante tutti i nostri sforzi.

 

In che modo si combattono le diverse forme di ingiustizie strutturali?

Per fare le dovute correzioni dobbiamo ripensare alle nostre strutture politiche, economiche e sociali, e al modo in cui le decisioni istituzionali possono rafforzare ingiustizie strutturali preesistenti o introdurne di nuove. Pensiamo alle conseguenze che può avere eliminare una linea del trasporto pubblico che collega un quartiere povero con l’area in cui si trovano le sedi di lavoro dove è impiegato il gran numero degli abitanti di questo quartiere. Il prezzo del risparmio economico è che alcune persone si ritroveranno a dover lasciare il lavoro spontaneamente per via dei costi eccessivi di un trasporto alternativo privato o dell’accudimento aggiuntivo dei propri figli, e ciò rischia di aumentare ancora di più la marginalizzazione delle persone che vivono in questo quartiere, il rischio di sfruttamento e di violenza, e l’esclusione dalle scelte politiche, ma anche diminuire la loro presenza tra le voci dei vari quartieri della città, e renderle così ancora più “invisibili”.

L’anno scorso, durante una conferenza a cui ho partecipato sull’esperienza delle persone anziane durante la prima fase della pandemia, ricordo che una signora ha preso la parola e ha affermato con irritazione di avere sentito fin troppo spesso l’espressione “siamo tutti sulla stessa barca”. “No!”, ha continuato,  “Non siamo tutti sulla stessa barca! Siamo tutti nella stessa tempesta, sì, ma alcuni navigano a bordo di uno yacht, mentre altri cercano di cavarsela su una piccola zattera e con un solo remo”. Questa metafora suggerisce che il primo compito è riconoscere queste forme di ingiustizia, e dare voce a chi le subisce e solitamente non ha la possibilità di esprimersi per raccontare il proprio vissuto e la propria esperienza. È anche svolgendo questo compito che la ricerca contribuisce a un mondo più equo e giusto.

 

Per approfondire:

 

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